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   Cal Tjader Riduci
Nato a San Francisco nel 1925, Cal Tjader – dopo regolari e brillanti studi musicali – si affermò come batterista e occasionale vibrafonista con il pianista Dave Brubeck (1949/51) e come vibrafonista e percussionista (bongo, timbales eccetera) nel quintetto del pianista George Shearing (1953/54).
Come i suoi primi datori di lavoro, Tjader ha goduto del favore del pubblico, ma non di quello della critica.
I critici hanno rimproverato a Dave Brubeck che dopo gli anni sperimentali – dove, appunto, il batterista era Cal Tjader -, il pianista abbia cercato il favore del pubblico. A distanza di anni (cinquanta per l’esattezza), detta critica risulta infondata, anche perché Brubeck ha continuato a fare le stesse cose per vari decenni, raccogliendo un successo planetario con le misure dispari. “Take Five” del suo sassofonista Paul Desmond è uno dei brani più famosi di tutta la storia del jazz. E va ricordato che Desmond, ancora in vita, l’ha regalato alla Ricerca sul Cancro.
Un po’ più giustificate sono dette critiche nei confronti di George Shearing che, dopo un inizio straordinario, diluì l’improvvisazione in parecchie sue incisioni facendo un “easy listening” raffinatissimo, spesso con alcuni grandi cantanti.

Tjader, una volta deciso di concentrarsi sul vibrafono, ha imparato molto da Brubeck e Shearing, ma il suo bebop è assolutamente integro e può essere avvicinato al lavoro di Milton Jackson.
Tjader è ugualmente eloquente ed elegante, anche se il suo suono è più percussivo e un po’ meno intenso dal punto di vista espressivo. E sicuramente la sua scrittura non può rivaleggiare con quella di John Lewis nel Modern Jazz Quartet.
Se mi si consente un gioco: Tjader sta a Jackson come Stan Getz sta a Sonny Rollins.
Ed è proprio con Getz che Tjader ha realizzato una splendida incisione nel 1958, dove sono presenti il contrabbassista Scott LaFaro ed il batterista Billy Higgins. Tjader li presentò a Getz dichiarandosi sicuro che i due – poco più che ventenni – avrebbero avuto un grande futuro.
Ma il vibrafonista – accanto al suo bebop di prima classe – incideva anche brani di ciò che oggi definiamo jazz “latino”.
San Francisco è una città aperta culturalmente. La sede della “beat generation”, per intenderci, che accoglie volentieri tutti i musicisti centro e sud- americani negli anni cinquanta.

Tjader scopre alcuni talenti
destinati a restare come Mongo Santamaria, Willie Bobo, Joao Donato, Pocho Sanchez e così via.
Egli non si limita ad assumerli nel suo gruppo, li invita a produrre musica da fare insieme. Nascono così standards conosciuti da tutti come “Afro Blue”, composto appunto da Santamaria.
 E’ proprio questo lato di Tjader che spinge la Verve, una delle più grandi etichette jazz, ad offrirgli un contratto e, di conseguenza, la possibilità di una popolarità internazionale.
Nell’etichetta di San Francisco – la Fantasy – il vibrafonista alternava il bebop con il “latin jazz”. La Verve – che ha incassato un successo senza precedenti facendo incidere Getz con Joao Gilberto e Antonio Carlos Jobim – vuole accrescere l’inserimento in questa area dove il bebop sposa Cuba, il Brasile, la musica dei Caraibi eccetera.
Tjader affronta il nuovo impegno insieme ad un pianista e compositore eccellente: Clare Fisher, anche se la Verve abbonda di grandi pianisti, infatti, gli affianca Chick Corea ed Herbie Hancock in alcune sue incisioni.
Il vibrafonista mostra in queste incisioni tutta la sua capacità ritmica – ad esempio, improvvisa sul 7/4 con una facilità disarmante… - ma anche tutta la sua conoscenza di modi e metriche di tutto il mondo, compresa l’Asia.
Quando la sua fama è ormai internazionale Tjader prova ad essere imprenditore di sé stesso e fonda una casa discografica insieme al chitarrista ungherese Gabor Zsabo ed al compositore, arrangiatore e vibrafonista Gary McFarland.

La cosa non dura molto e Tjader torna a lavorare nella sua amata California per la Concord che ha una serie che si chiama “Picante”.
La prima incisione per detta casa discografica è un ennesimo successo: “La Onda Va Bien”, ma il cocktail è il solito: grandi standards, magari riscritti a temi dispari, e brani di estrazione afro-cubana, brasiliana, caraibica e, occasionalmente, orientale.
Di quest’ultimo periodo va sottolineata l’incisione che vede il suo gruppo, con Mark Levine al piano, e la cantante Carmen McRae, “Heat Wave”. La data è 1982 ed è anche l’anno che Tjader si spegne a Manila, dove era in tourneè, a meno di 57 anni. Sembra che sia stato vittima di un incidente a cui era estraneo.
L’eredità di Tjader è contesa fra Roy Ayers, Dave Pike, Bobby Hutcherson e Dave Samuels, ma di questo parleremo una altra volta.

Restano un enorme numero d’incisioni che testimoniano un’arte superiore che impiega e spesso anticipa tutti gli stilemi del jazz dalla metà degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Ottanta: il modale, le misure dispari, il confronto con le altre culture, la ricomposizione degli standards e la composizione di originali impieganti nuove strutture.


Discografia essenziale

Il livello delle incisioni di Cal Tjader è alto, quindi in ognuna di essa c’è qualcosa d’interessante. Ma vanno sottolineate “Monterey Concerts” con Paul Horn al flauto, Willie Bobo alla batteria e Mongo Santamaria ai bongo; ovviamente il lavoro con Stan Getz che porta una data sbagliata: purtroppo Scott LaFaro perì nel 1961.
Le tre incisioni con le cantanti Anita O’Day, Mary Stallings e Carmen McRae e tutte le serate bebop al Blackhawk di San Francisco, dove evidentemente era di casa.
Per gli amanti del “latin jazz” c’è l’imbarazzo della scelta: propongo “Los Ritmos Calientes” una antologia della Fantasy.
(Nino De Rose- docente di jazz al Conservatorio di Milano)